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Contea di Alvito

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La contea di Alvito fu un feudo del Regno di Napoli, nel giustizierato di Terra di Lavoro, che interessò, dalla fine del XIV secolo all'inizio del XVI secolo, il territorio di alcuni comuni della Valle di Comino, area periferica dell'attuale provincia di Frosinone

La Contea di Alvito

La contea di Alvito fu costituita originariamente dal feudo delle proprietà terriere del castello Cantelmo (o "di Alvito"), presente nell'omonima frazione, posta sulla sommità del monte Morrone, e fu poi amministrata dalle famiglie d'Aquino e Cantelmo che favorirono una notevole espansione territoriale. Il titolo comitale sarebbe stato concesso dai sovrani Durazzeschi di Napoli, tra la fine del XIV secolo e l'inizio del XV, ai D'Aquino, e passò presto a Giacomo Cantelmo, grazie alla dote della moglie Elisabetta d'Aquino, che sposò più tardi del 1386.

La prima attestazione certa è tuttavia del 1404: solo nel XV secolo Giacomo Cantelmo viene indicato esplicitamente in un documento come conte di Alvito e di Popoli. Nel 1606, sotto il dominio della famiglia Gallio, si trasformò, con lievi modificazioni territoriali, in ducato.

Con l'arrivo degli angioini nel regno di Napoli nell'area a cavallo fra l'Abruzzo montano e l'alta Terra di Lavoro si insediò la famiglia francese dei Cantelmo, che qui ebbero in concessione diversi feudi dai sovrani di Napoli, ricoprendo poi anche cariche amministrative e burocratiche nei giustizierati abruzzesi e campani.

In un periodo che vide crescere il dominio Cantelmo nel Lazio, a svantaggio dei D'Aquino, la famiglia francese compare per la prima volta anche nella storia di Alvito, grazie a dei matrimoni combinati dapprima fra Giovanni Cantelmo, figlio di Giacomo II, con Angela Étendard, signora di Arpino, Roccasecca, Gallinaro e San Donato, e quindi fra Rostaino II e Margherita di Corban, vedova di Adenolfo II d'Aquino signore di Alvito.

La riunificazione del contado alvitano

Il complicato sistema amminsitrativo della Valle di Comino impediva ai Cantelmo di diventare proprietari a pieno titolo del contado alvitano: le antiche proprietà ecclesiastiche cassinensi, consistenti per lo più in terreni agricoli, prepositure e monasteri, si sovrapponevano al ricco latifondo dei D'Aquino, che comprendeva Campoli, Settefrati e la campagna di Alvito, per cui i Cantelmo di fatto erano solamente proprietari del Castello.
La «Taverna Ducale» dei Cantelmo a Popoli costruita fra il 1373 e il 1377

Rostaino, nipote di Giacomo II, tentò di unificare le proprietà castellane con quelle agrarie del circondario di Alvito, usurpando le proprietà dei D'Aquino.

Questi, denunciato al re, fu costretto a restituire i terreni e a pagare una cospicua ammenda. La lotta per la costituzione di una signoria fu portata però avanti dai nipoti, Rostainuccio a Popoli, Berlinghiero ad Arce e Giacomo in Alvito, che cercarono di guadagnar potere in Terra di Lavoro e in Abruzzo. Essi approfittarono dello scompiglio causato dallo scisma d'Occidente, che interessò direttamente le Due Sicilie: si schierarono con Giovanna d'Angiò, che sosteneva di Clemente VII, e secondo le disposizioni della regina, riconobbero come legittimo erede al trono Luigi d'Angiò. Il partito che si costituì, sostenitori dei francesi, non poté nulla contro l'esercito ungherese di Carlo d'Ungheria, che sceso in Italia, riuscì a sconfiggere gli angioini napoletani e con loro i Cantelmo; probabilmente Rostainuccio e fratelli furono soggiogati per mano diretta del sovrano ungherese, che attraversò Sora e la Valcomino con il suo esercito per sopire eventuali ribellioni. I Durazzeschi avevano avuto la meglio. È naturale che i ribelli si sottomisero al nuovo re di Napoli, dovendo riconoscere anche legittime le proprietà dei d'Aquino in Alvito, e in documenti dell'epoca uno di essi, Giacomo IV, nel 1384, è ricordato come terrae Albeti dominus, poiché probabilmente, conquistata la fiduca del re, gli fu garantito il possesso dell'intera città di Alvito, non più del solo castello allora, con le campagne circostanti. Evidentemente si era pattuito un compromesso fra il feudatario e la nuova corte napoletana.

La contea dei Cantelmo

Morto re Carlo III in Ungheria, il regno di Napoli cadde nuovamente in una situazione di anarchia politica e militare, con due partiti, uno schierato con i Durazzeschi, per la successione al trono di Ladislao d'Angiò-Durazzo, e l'altro con gli angioini di Francia, che invece riconosceva come sovrano legittimo Luigi II. I Cantelmo furono quanto mai ambigui nella complicata situazione politica napoletana: in un primo momento fedeli ai Durazzeschi, non appena Luigi II scese in Italia si affiancarono ai francesi, incorrendo nell'ira di Ladislao, che per punire l'affronto, assediò e constrinse alla resa Alvito; Rostainuccio, impegnato a combattere in Abruzzo, fu sconfitto e fatto prigioniero a Pereto, nel 1369, da Jacopo Orsini, e in punto di morte lasciò ai fratelli Berlinghiero, Antonella e Maria i suoi beni.

Per breve tempo, per volere di Ladislao, Alvito fu amministrata da Andrea Tomacelli, fratello di Giovanni, conte di Sora, e di papa Bonifacio IX, sostenitore dei Durazzeschi, ma il feudo cominense tornò presto ai Cantelmo. Giacomo V, figlio di Rostainuccio, fu il primo conte di Alvito, il quale probabilmente ebbe il nuovo titolo nobiliare dopo il matrimonio (1385 con Elisabetta d'Aquino, a lei in dote, o, più probabilmente, lasciato al suo consorte dopo la morte del padre Francesco d'Aquino. Berlinghiero comunque aveva continuato a dominare su Arce anche dopo l'alienazione del Cominense in favore dei Tomacelli, e lasciò in eredità a Giacomo V la signoria sulle città di Alvito e Popoli.

La prima espansione territoriale

Giacomo morì nel 1406, con due figli, Francesco e Antonio, i quali ereditarono rispettivamente la contea di Popoli e la contea di Alvito. Antonio appena divenuto signore iniziò una politica di espansione territoriale che perseguì con alterne vicende durante tutta la sua vita. Come prima mossa acquistò Gallinaro e Fontechiari («Schiavi») da re Ladislao e giovò di diverse eredità che gli spettarono, per la morte dello zio Giacomo e del fratello Francesco senza eredi, fra cui Arce e Popoli. Altri feudi che si insinuavano fra l'Abruzzo e la Valcomino e disturbavano l'unità territoriale dei possedimenti di Antonio furono da questi assaliti e in breve soggiogati, ai danni di Raimondo Caldorna, al quale sottrasse Roccacaramanico («Rocchetta») e Pacentro. Il conte si adoperò anche affinché fosse padrone del suo matrimonio e rifiutò prima la promessa sposa, per volontà del padre, Angiolella Marzano (duchessa di Sessa), e Leona de Andreis (contessa di Troia), che gli aveva indicato il re, e finì con lo sposare la contessa di Camerino Bianca di Varano.

Antonio Cantelmo e i re di Napoli

L'instabilità politica tornò a sconvolgere il regno di Napoli. Re Ladislao, nel 1408, tentò di annettere a Napoli lo Stato Pontificio e il resto dell'Italia. Condannato da Alessandro V, si vide contro Luigi II, il quale da parte sua tornò ad invadere lo stato napoletano. Antonio non riuscì a schierarsi stabilmente con nessuno dei due: dapprima sostenne Ladislao e poi, catturato dagli angioini di Francia, si diede a sostenere la causa francese. Di contro il re di Napoli vendette il suo feudo a Onello Ortiglia[23] e, solo dopo la morte di Ladislao, tornò ai Cantelmo, nel 1417, regnante Giovanna II. L'intera Valle di Comino fu teatro di una storica battaglia fra Luigi II e Ladislao; quest'ultimo sconfitto a Roccasecca dal sovrano francese nel 1412, preparò la difesa del regno tra Atina e le Mainarde, mentre Luigi II si era accampato tra Atina e Gallinaro, con le truppe di Antonio Cantelmo a sostenerlo; Ladislao attaccò ed ebbe la meglio. Antonio fu privato dei suoi feudi. Pochi anni dopo Alvito fu di nuovo minacciata dalle turbolente guerre di successione delle Due Sicilie; morta Giovanna II, Aragonesi e Angioini si contendevano il regno; nel 1435 il capitano di ventura Riccio da Montechiaro, filo-aragonese, attaccò la contea cominense distruggendo San Biagio Saracinisco (Saracenisco), Rocca degli Alberi, Rocchetta e Rocca delle quattro Nore e Vicalvi; l'anno seguente gli angioini saccheggiarono Alvito e Atina, dirigendosi poi verso Montecassino, mentre per breve tempo le truppe papali occuparono Sora, Aquino, Arpino e Atina. Antonio questa volta si schierò con gli Aragonesi, e il successo della controffensiva di Alfonso d'Aragona segnò la fine dei saccheggi e degli assedi in Valcomino, nel 1438, e la vittoria finale dei sovrani iberici a Napoli segnò la fortuna dei figli del conte Cantelmo, suoi eredi, Nicolò e Onofrio.

Da contea a ducato

A Ferrante, morto nel 1571, successero i figli, Loise e Antonio, nati dal matrimonio con Beatrice di Cordova, imparentata con Consalvo di Cordova. La contea fu in mano del primogenito dal 1572 al 1574, mentre il secondogenito la governò dal 1575 al 1592. Essi tuttavia la trascurarono, lasciandola nell'incuria e, soprattutto, in balìa dei soprusi dei governatori, tanto che si registrarono, per ritorsione, numerosi episodi di brigantaggio. Con Antonio, che nel frattempo aveva contratto numerosi debiti, nonostante avesse ereditato anche il ducato di Sessa, fu prima smembrata, poi dal 1592 definitivamente ceduta a Matteo di Capua, principe di Conca, per 100.000 ducati e con «l'illimitata giurisdizione su gli averi e su le persone».

Il 30 maggio 1595, la contea fu nuovamente oggetto di un'alienazione. Fu venduta, infatti, al conte milanese Matteo Taverna, che l'acquistò, però, con i soldi di Tolomeo II Gallio, nipote dell'omonimo cardinale, con patto di riscatto: il cardinale, in sostanza, vi pose la sua giurisdizione dal 1595 al 1600 per conto di Taverna, e dal 1600 al 1606 in nome del nipote. Questi venne creato, dal re di Spagna Filippo III, duca di Alvito nel 1606.

Ultima modifica: venerdì, 17 febbraio 2023

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